In morte di Amatrice 

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Non capita spesso di seppellire la propria infanzia. Sì certo si supera, si lascia alle spalle scrollandosela di dosso come polvere.

Eppure proprio sotto la polvere delle macerie di quel che rimane di Amatrice, città della amatriciana, riposa ora, non in pace, una parte di me, della mia vita: la mia infanzia di bambina.

Ho impiegato circa 5 secondi a scattare questa foto, esattamente un mese prima del terremoto. L’ho fatta con il cellulare, non ci ho voluto sprecare la macchina fotografica, perché era un’immagine familiare, presente nella mia memoria da sempre; era parte della mia quotidianità estiva. Ho commesso l’errore fatale di ritenerla scontata. Così, ho fatto semplicemente click, banalmente click, sullo schermo e soddisfatta di quell’audacia di Iso automatici l’ho inviata a un mio amico amatriciano.

Non credevo che sarebbe stata l’ultima foto che avrei scattato del Corso, del Teatro, della Torre: insomma della MIA Amatrice. Se Lei mi avesse dato almeno un segno mi sarei preparata a dovere, avrei portato perlomeno un cavalletto, ne avrei immortalato mura, sanpietrini, finestre, negozi, volti. Le avrei tributato tutti gli onori del caso. Avrei respirato ancora una volta l’aria fresca e profumata di pane lì vicino al forno o di girella all’uvetta e di cappuccino là al bar sotto i portici o di frittura nei giorni della fiera. Avrei dato una carezza ai muri centenari su cui si erano appoggiati i miei nonni, i nonni dei miei nonni, chissà magari per riprendere fiato e riposarsi un attimo prima di continuare la salita lungo il Corso. Mi sarei attardata un momento di più dal giornalaio a prendere l’immancabile Tempo con la cronaca di Roma che mi mandavano a comprare, lasciandomi mettere da parte il piccolo resto, che giorno dopo giorno diventava un tesoretto agli occhi di una bambina in vacanza con i nonni. Avrei dondolato ancora un po’ sull’altalena dei giardinetti che per prima mi ha donato l’ebbrezza del volo, lì appesa alle catenelle di metallo che parevano schizzarmi a folle velocità verso il cielo, tra le nuvole e i monti che intanto giocavano a nascondino con le fronde degli alberi apparendo e scomparendo alla mia vista, tra una spinta e l’altra del malcapitato parente di turno che pregavo di portarmi lì.

E invece te ne sei andata così, inghiottita dal buio della notte. Hai lasciato che l’aria pulita della tramontana ti scivolasse addosso, che aiutata dal sole pennellasse per un’ultima volta contro il cielo il profilo delle tue case, delle tue chiese, della tua storia. Ti sei spenta nel tramonto, lentamente, per mai più risorgere. Hai dato un grido alle 3:36 poi più nulla. E il silenzio, sudario pietoso, ti ha accolto nel cuore della notte. La luna quasi piena, ti ha purificato la carne ferita a morte, per consegnarti alla luce immortale delle stelle.

Ti voglio bene, ma non ti perdono di avermi lasciato così. Di aver portato con te i giorni belli, felici di questa vita che ho ricevuto in dono. Soprattutto non ti perdono di non avermi permesso un congedo da casa.

Appena tre giorni prima dalla fine, ne sono uscita tranquilla come sempre, come chiunque giustamente fa. Sono tornata solo un attimo sui miei passi, per tirarmi bene appresso il cancello con il suo immancabile, congenito, cigolio nonostante i mille inefficaci rimedi tentati. Non ho salutato i miei giochi da bambina: la mia bambola ora al freddo e all’acqua in cantina. Non avevo neppure finito di cogliere le nocciole che ancora maturavano ingenue sui piccoli alberi e che lì resteranno. Non mi sono affacciata un’ultima volta dalla loggia per osservare Pizzo di Sevo, Pizzo di Moscio e il Vettore, quel monte che la mia fantasia infantile mutava in “Interruttore”. E ancora quanti caffè fatti di acqua e terra che propinavo a Nonna e Zia giocando alle signore in giardino. Quanti caffè veri, rituale post pranzo, ho preparato nella cucina dal camino insensato con la canna fumaria storta che non ha mai funzionato e ora serenamente può smettere di provare il disagio della propria mancanza: più nulla funziona. Non la luce, né l’acqua, tutto può ritirarsi. Gli spifferi dagli infissi delle finestre che mi costringevano a dormire con la borsa dell’acqua calda anche in questi giorni d’agosto. Nessun problema quindi anche per l’antenna tv destinataria di tante imprecazioni e che durante i goal e i punti più belli di queste Olimpiadi decideva di ricordarci chi comandasse sulle trasmissioni. Fine dei giochi. Con 91 anni sulle spalle, tanti acciacchi, alcune cure e immenso affetto chiedi la disdetta e chiudi i battenti, squarciando i muri. Alzi la bandiera bianca anche tu, ladra che sei! Ti porti via anche un pezzo di me senza chiedere permesso: forse che la polvere a cui siamo destinati e che in fondo tocca anche te, un po’ ti spaventa. Per questo ti avvii alla fine portandoti appresso l’eco di una risata bambina e il ricordo di giornate serene.

E intanto trema la terra, sono 142 secondi. Un attimo. O l’eternità. Continua a tremare la terra, ma è il mio cuore che si ferma.

22 pensieri su “In morte di Amatrice 

  1. Come ti comprendo … mio nonno, originario di Illica (Accumoli) luogo dei racconti delle estati di infanzia della mia mamma….
    Nella mia pigrizia mi sono sempre ripromesso di andare a vedere le mie origini … ma non ci sono più …

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  2. a parte la tragedia immensa inimmaginabile tu scrivi splendidamente… ti leggevo ed ero lì…non trovo parole da aggiungere a quelle splendide e toccanti che hai già scritto…ti abbraccio forte e abbraccio tutti voi…

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  3. Michele Grimaldi

    Da brividi…Amatrice l’ho vissuta in tanti modi nel corso degli anni, sono di Cittaducale, per lavoro e per le belle “Amatricianate” con gli Amici…risorgerai, più bella che mai!
    Un abbraccio forte al Popolo di Amatrice. Presto sarò a dare una mano, di servizio al Centro Operativo Comunale con i colleghi del Corpo Militare dell’Ordine di Malta.
    ONORI A TUTTE LE VITTIME

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  4. Michela

    Non sono di Amatrice ma per tutto il tempo che ho impiegato per leggere questo capolavoro del cuore mi è sembrato di esserlo.
    Con le tue parole sei riuscita a far rivivere la bambina che è in te, quella che ancora sta giocando e correndo per le sue strade ormai tra le stelle e a farla vedere ad occhi aperti a tutti noi, perché ti posso garantire che chiudere gli occhi per immaginare sarebbe servito a poco, sembravano immagini reali.
    Mi hai ricordato che tutto ciò Che ci circonda non va mai dato per scontato e che purtroppo tutti invece caschiamo in questo tranello della vita.
    Ti sono vicina col cuore e non smettere mai di raccontare delle tua bellissima Amatrice.

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  5. Sommatello

    Veramente complimenti per quello che hai scritto. Hai saputo condensare in poche righe quello che tutti noi amatriciani (locali e romani) abbiamo nel cuore come se fosse un pensiero uguale per tutti, forse perché Amatrice ha regalati a tutti noi le stesse emozioni. Rileggo questo brano ogni volta che il dolore per quello che abbiamo passato sembra prendere il sopravvento e tutto si trasforma in struggente malinconia per quello che forse non sarà più. Oggi la mia speranza è che grazie a questi ricordi sapremo riprenderci quello che è stato. Grazie

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    • Hi! Thank you so much for your opinion. I’m sorry for the translation….i should write this text in engligh too. But I wrote it in a sad and lonely night and I didn’t think about any translation….sorry again and thaks for your words and time!

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  6. valenopasanada

    Ho trovato il tuo articolo per caso su Twitter e l’ho letto tutto d’un fiato. Anche io ho passato la mia infanzia ad Amatrice con i nonni, avevo casa “alla Villa”, lungo la strada dopo Giovannino, la casa bianca. Condivido quel che dici, l’infanzia è stata seppellita e ogni sicurezza così trema.
    Un abbraccio, Valentina

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